L’incontro tra Jack Kerouac e Fernanda Pivano non è mai avvenuto, eppure ha avuto lo stesso effetto di una rivoluzione nella coscienza culturale italiana. Se Kerouac è stato l’anima della Beat Generation, Pivano ne è stata la voce italiana, la traghettatrice tra due rive, quella americana e quella nostra.
Kerouac scriveva come se dovesse morire l’indomani. Scriveva con la frenesia di chi non ha tempo, di chi cerca Dio in un bicchiere di whiskey, in una stazione di benzina del Kansas. La sua macchina per scrivere era una tromba, il suo stile puro flusso, senza punteggiatura, senza respiro, come il suo capolavoro On the Road, nato su un rotolo di carta lungo 36 metri.
Ma cosa c’entra Fernanda Pivano con quella strada infinita, percorsa a bordo di una Cadillac sgangherata? C’entra eccome. Senza Pivano, in Italia la Beat Generation sarebbe rimasta muta. Lei sapeva tradurre e ascoltare. Era la cassa di risonanza di un’America in fermento che in Italia ancora faceva paura. Mentre il mondo accademico storceva il naso, lei apriva le porte a Ginsberg, Burroughs, Ferlinghetti, con l’intuizione di chi sa distinguere la forza del cambiamento.
Fernanda Pivano nasce nel 1917, sotto un regime che le imponeva di non pensare. Ma lei pensava eccome. Allieva di Pavese, amava Hemingway e Fitzgerald quando le biblioteche fasciste li mettevano all’indice. Portava in grembo una forma di antifascismo sottile, testardo, fatto di parole e letture scelte con cura. Per questo, quando incontra la Beat Generation, anche solo su carta, capisce subito che quelle voci venute dall’America sono un manifesto esistenziale contro ogni autoritarismo, compreso quello più subdolo e democratico dell’Occidente capitalista.
Quando nel 1957 uscì On the Road, l’America scoprì un linguaggio nuovo per raccontare la libertà. In Italia, quel linguaggio arrivò filtrato dallo sguardo acuto e appassionato di una donna che aveva già fatto conoscere gli Stati Uniti del disincanto. Ma con i beat era diverso. Non erano più gli scrittori a essere rivoluzionari, era la scrittura stessa a esserlo. E Pivano lo capì. Non li trattava da mostri sacri, ma da fratelli fragili, perduti, geniali. Era affascinata dalla loro fame di senso, di viaggi, di verità anche scomode.
E oggi, cosa resta di quell’America? Quasi nulla. Non è solo la presidenza Trump ad aver sancito il collasso di un’idea, ma l’intero impianto simbolico su cui quella nazione si reggeva. Il punto non è chi governa gli Stati Uniti. Il punto è che quell’America che si pensava orizzonte, sogno, non esiste. Non è il paese delle strade infinite, ma quello delle carceri di massa e delle scuole sotto assedio. Non è la patria della libertà d’espressione, ma quella della sorveglianza globale, dei monopoli tecnologici, dell’interventismo permanente. L’America di oggi schiaccia. E l’Occidente intero, ipnotizzato dal riflesso di quel potere, ha smarrito sé stesso.
L’America non solo ha smarrito sé stessa. Ha perso ogni pretesa di credibilità morale.
Mentre a Gaza si consuma sotto gli occhi del mondo un genocidio trasmesso in diretta, gli Stati Uniti continuano a sostenere politicamente, economicamente e militarmente il governo israeliano. Il linguaggio dei diritti umani si svuota, la democrazia diventa strumento di potere selettivo. Gli stessi Stati Uniti che un tempo producevano poesia e dissenso, oggi forniscono armi e copertura diplomatica a chi bombarda ospedali, scuole, campi profughi.
Non è solo complicità, è parte integrante della macchina di oppressione che i beat avevano intuito, quando rifiutavano l’autorità cieca, il conformismo, la guerra come forma di ordine. Se Kerouac era inquieto, oggi sarebbe furente.
L’Occidente intero si piega a questa ipocrisia, fingendo neutralità mentre accetta le regole imposte dal più forte. In questa deriva, ogni voce libera è un atto di resistenza.
Ma c’è un’altra verità che oggi fatichiamo a dire. L’America non ha mai smesso di volerci dire chi dobbiamo essere. La guerra fredda è finita, ma l’imperativo resta lo stesso. Uniformarsi, accettare il mercato come unica religione, esportare libertà a suon di bombe. I beat avevano già visto tutto questo, prima ancora che esplodesse. On the Road non è solo un romanzo di viaggi, è una fuga da un sistema asfissiante, una corsa per sottrarsi a un’ideologia travestita da democrazia.
In fondo, quei ragazzi americani inquieti chiedevano di poter vivere diversamente. Senza un Dio imposto, senza una patria blindata, senza un destino scritto dal denaro. Oggi, quella domanda è rimasta sospesa. Nessuno vuole più ascoltarla. La libertà dei beat non c’è più.
Fernanda Pivano tradusse una contro-narrazione del mondo, che metteva in discussione le gerarchie, le verità ufficiali. La Beat Generation interrogava l’America. La metteva a nudo. Ed è questo che oggi fa paura. Opporsi al modello dominante attribuisce l’etichetta di nemico, pertanto rileggere Kerouac e ascoltare Pivano è un atto politico.
Eppure le parole restano.
Restano come un invito a riscrivere. A ripartire.
E risuonano le parole stanche e profetiche dello stesso Kerouac, giunto ormai alla fine della corsa: “L’America sta cercando di controllare l’incontrollabile. Ho finito di giocare a fare l’americano. Ora me ne andrò a vivere una buona e tranquilla vita.”
Oggi, mentre l’America pretende ancora di dominare e l’Occidente impone regole che non rispetta, la lezione dei beat torna a farci visita. Ci ricorda che la strada è ancora lunga. Ma se abbiamo le parole giuste, possiamo ancora camminare. E magari, come Kerouac, farlo con la musica nel cuore.
Federica Cannas