Sabina Spielrein è una figura difficile da afferrare, fatta di slanci e abissi, di mente acuta e ferite aperte, di desiderio di vivere e bisogno di scomparire. Una paziente diventata psicoanalista, una donna che ha lasciato un’impronta sottile ma decisiva sulla nascita della psicoanalisi. Senza clamore. Ma con una forza che ancora oggi vibra.
Nel 1904, a diciannove anni, Sabina Spielrein entra nell’ospedale psichiatrico Burghölzli di Zurigo. Ha convulsioni, urla, silenzi isterici. Il suo corpo parla una lingua che nessuno capisce. Nessuno, tranne Carl Gustav Jung, giovane medico curioso e ambizioso. Tra loro nasce qualcosa che sfugge a ogni etichetta. Un legame profondo, torbido, creativo. Non è solo passione, è un duello tra anime affini e inquiete.
Sabina guarisce e si trasforma. Studia medicina, si laurea con una tesi sulla schizofrenia, una delle prime scritte da una donna in chiave psicoanalitica. E con uno sguardo lucido e tragico, si fa strada tra le ombre della mente. “La distruzione è all’origine del divenire” scriverà nel 1912. Non una frase a effetto, ma una verità intima e profonda. Per rinascere, qualcosa deve morire. Anche in noi.
Il rapporto con Jung la tormenta e la nutre. È una donna che pensa, che scrive, che osa contraddirlo. Lo influenza, lo sfida. Ma mentre lui costruisce il proprio mito, Sabina cerca un senso più grande. Pubblica articoli su linguaggio, sviluppo infantile, desiderio e distruzione. Intuisce legami che Freud stesso esplorerà anni dopo. Ma il suo nome resta ai margini. Forse troppo acuta per essere ascoltata da un sapere ancora cieco al femminile.
Negli anni Venti torna in Russia, animata dal desiderio di portare la psicoanalisi nei luoghi dell’infanzia. A Mosca fonda un asilo sperimentale, dove pedagogia, psicoanalisi e libertà si intrecciano. Lavora con i bambini, studia il linguaggio, scrive articoli di straordinaria modernità.
Ma i tempi cambiano. Lo stalinismo reprime ogni voce indipendente. La psicoanalisi viene messa al bando. Sabina viene isolata, marginalizzata. E nel 1942, durante l’occupazione nazista, viene assassinata a Rostov insieme alle sue due figlie. Nessun processo, nessun corpo. Solo il silenzio.
Negli anni Settanta, grazie al ritrovamento di lettere e diari e al lavoro di Aldo Carotenuto, la sua storia riaffiora. Non più solo la paziente di Jung, ma una pensatrice originale, che ha saputo trasformare il dolore in teoria.
Il cinema ha dato nuovo volto alla sua vicenda. Prendimi l’anima di Roberto Faenza, A Dangerous Method di David Cronenberg. Ma dietro la narrazione, resta il nucleo della sua vita. Ossia il coraggio di inventare se stessa, in un mondo che non la riconosceva.
Sabina non era una teorica fredda. Voleva capire la vita senza toglierle l’anima. I suoi testi parlano di tensioni, di desideri che distruggono e creano, di infanzie fragili, di parole che salvano. Era una pensatrice che non separava mai la mente dal cuore, la teoria dall’esperienza, il sapere dalla carne.
E forse è per questo che la sua storia ancora commuove, ancora inquieta, ancora ispira.
Perché dentro di lei c’era il bisogno di lasciare un segno.
E quel segno, ora, brilla nel punto in cui il sapere si fa coraggio, e il dolore, finalmente, trova voce.
Federica Cannas